TESTIMONIANZA DI UN CAMMINO MISSIONARIO CON I PIU' POVERI  di Padre Giuseppe Ramponi IMC
    Dialogo con le culture

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La mia passione sono sempre stati i libri. Incontravo il mondo culturale che non potevo visitare.

In Liceo passavo molte notti a leggere i librini delle collezioni BUR che trovavo nella biblioteca dei Padri: loro avevano le enciclopedie e le grandi serie di letteratura mondiale, noi studenti i raccontini missionari. Nel momento formativo la base é stata la cultura francese e la passione per l’africa sahariana e subsahariana francese. Avevo anche una collezione di livres de poche.

Mi toccò emigrare religiosamente e dalla Francia passai al Piemonte, alla Consolata.  Nel Noviziato ebbi la fortuna di incontrarmi con un confratello USA Doc a cui dovevo insegnare l’italiano. Non sono riuscito a compiere il mandato ma dal padre che era scrittore e pensatore sono stato introdotto nel mondo culturale di lingua inglese. Da allora la letteratura britannica è stata il mio nuovo mondo.

Ordinato sacerdote ei destinato all’Africa  nell’anno di preparazione a Londra ho potuto leggere sistematicamente e per autore tutto quello che mi piaceva. La libreria Foyles era il mio luogo più frequentato dopo la cappella.  Mi insegnava inglese una Maestra  che mi aiutava a conversare e a visitare  musei, Gallerie e mi portava ai concerti. In casa avevo ore tranquille per leggere i miei autori preferiti: Chesterton, Graham Green, Marshall, Morris West. 

Finalmente il 23 settembre 1967 sbarcai in Africa. Nairobi fu il battesimo culturale. Nonostante tutti i libri e tutte le lingue non sono riuscito a farmi capire al telefono e per il taxi ho mostrato un indirizzo previamente scritto. Padre Aldo Vettori, carissimo amico che sapeva bene solo il veneto di Santa Bona, Via del Galletto, Treviso, trovava parlava con tutti senza particolari difficoltà. Per arrivare alla missione che era Wamba, ci vollero moltissime ore. Era come passare tra diversi sogni e innumerevoli costellazioni. Sentivo di essere insignificante e impreparato. A Wamba cominciai a studiare il kiswahili con i bambini a cui dovevo insegnare religione. Che ridere, mai mi ero sentito così comico. Mi facevano anzi ripetere e non smettevano di ridere. Intanto coglievo parole Samburu e cercavo di capire quella gente perché dovevo dar loro un messaggio, fare una predica, dire qualcosa. Mi dedicai anche ai canti. Praticamente i primi tre anni congelai l'espressione e mi aprii all'ascolto per imparare e imparare a imparare. Nel 1970 la Diocesi di Marsabit, preti e Vescovo, nelle Conferenze annuali, prese una decisione importantissima: dare ogni appoggio e preferenza alla cultura: lingua,  usi e costumi. Per i Borana fu incaricato una Padre di Alba e per i Samburu scelsero padre Ramponi, cioè questo umile servitore. Cominciai con forte volontà a dialogare con le culture, mettendomi a capofitto nella ricerca di documenti, esperienze e scritti degli antropologi e anche dei vari amministratori inglesi che erano passati per il Distretto Samburu. Spencer era il manuale autorevole ma anche altri antropologi specialmente chi era passato per l'Università di Nairobi e aveva lasciato le proprie tesi. Io accumulavo di tutto, anche piccoli lavoretti di missionari che avevano detto qualcosa. Pensavo che si dovesse partire dalla conoscenza del materiale scritto: poi entrare nella lingua, poi registrare usi e costumi, tradizioni, preghiere.

Ho lavorato molto anche nella lingua. Tutta la vita mi aveva incantato la parola e la filologia  E non risparmiai  tentativi per mettere assieme una grammatica e un vocabolario essenziale che aiutasse i miei confratelli. Con le culture scritte, documentate e catalogate i dialoghi sono relativamente facili. Anzi  ci entusiasmiamo, rimaniamo completamente conquistati. Succede anche nella vita religiosa: che entusiamo con i libri, le ascetiche, i trattati, le storie, le dottrine, lo spirito di fondazione ecc. Ma appena giù dalle scale quando bisogna dialogare con i soggetti culturali tutto diventa difficile. Per fortuna mi compensavo con le scuole. Ero anche education secretary e dovevo fare i contatti con le autoritá, con i maestri e con gli alunni. Avevo anche le mie scuole. Le persone del mondo culturale c’erano tutte  come nel presepio, anche Erode, anche i Sommi sacerdoti, anche i fregoni. Soprattutto c'erano uomini e donne, bambini e bambine, con la passione di ogni giorno registrata nei fatti ripetuti perché la strada aveva quel tracciato e la vita era quel disegno. E gli anziani avevano autorità e sostenevano la memoria e le donne avevano i sogni e i ricordi e i bambini avevano tutto il sole e il pianto e il sorriso per ascoltare e commuoversi.

Il dialogo cominció a farsi vero, reale, registrabile senza inventare niente, ascoltando, guardando, cercando di capire, parlando con mucho amor. Non li ho mai tolti dal loro mondo ma ho cercato di farli liberi e responsabili nella loro casa e che per favore fossero creativi e liberi prima di cambiare qualcosa. Mi ero perfino illuso di trasformare la cultura partendo dalla libertà. Se diventavano creativi e in grado di lavorare tutti gli elementi culturali chi impediva la apertura per il confronto e la riflessione critica? Avrebbe cominciato il perché, la quaestio famosa, prologo indispensabile di ogni filosofia. Ma tutto è potere e se la cultura mostrava varie versioni era per mantenere il potere. Cultura vuol dire che qualcuno vince e gli altri perdono. Chi ha il potere gestisce e ordina i posti e le mansioni. La cultura era  degli anziani. Le donne avevano la spontaneità della natura e i giovani una lunga iniziazione, un servizio comunitario e tante avventure. Io ero come un navigante ma appiedato per la difficoltà di fare sintesi. 

Wamba,  Maralal, Loyangallani, Moyale, Archer’s Post, Mombasa sono state le stazioni per un  itinerario culturale diviso in tappe: l’africano a casa sua e l'Africano urbanizzato.

A Mombasa come vicino dei Mussulmani ho vissuto sei anni. Mi occupavo dei cristiani emigrati da tutto l'altro Kenya ma la società era multicolore come la Grazia e bisognava dialogare moltissimo con la gente e ascoltare le diverse culture per saperle rispettare. Mi interessai della scuola e dei bambini che andavano a scuola, per aiutarli. I miei collaboratori nel progetto erano mamme cristiane e mamme mussulmane e mai abbiamo litigato per la religione. Posso dire che io li rispettavo stando al mio posto e loro mi rispettavano sapendo che mai e poi mai avrei comprato la loro fede. Quando decisi di lasciare Africa i primi a reclamare furono proprio i Mussulmani. Avrei voluto tornare al Marsabit per rivedere i modi e i metodi del famoso dialogo con le culture. Una voce autoritaria me lo impedí. Per San Paolo fu un Angelo per me nò. Allora accettai la proposta dell' America Latina. Mi attraeva la terza tappa culturale: l’africano deportato. Avevo tutti i numeri per una bella esperienza. Il luogo, Cartagena, la conoscenza delle origini, 15 anni di Africa, la volontà di offrire agganci con la storia e con le radici culturali.

Rimasi a Cartagena due anni bellissimi e capii un altro modo di fare il famoso dialogo con le culture.  Spesso vediamo la cultura come un corpo di usanze, credenze, tradizioni, una specie di codice di Hammurabi da mettere nello zaino e portarcelo dietro e tirarlo fuori ogni tanto per misurare i gradi nella scala culturale. La cultura dei kikuyu per esempio non è più quella che ha registrato Padre Cagnolo, ma quella che stanno vivendo adesso in quel posto quei kikuyu con nome e cognome.

Quindi è inculturazione perché le pressioni, i cambiamenti, gli influssi, le circostanze hanno cambiato la vita, la mentalità, i comportamenti, la visione. Si dice sempre che è necessario sapere da dove vengo e conoscere la storia per identificarmi. Ma se ci sbagliamo con la memoria di ieri cosa succede quando i ricordi non sono precisi e i dati introvabili. Nella inculturazione cercheremo le vestigia, gli accenni, i riferimenti ma per capire il cammino fatto, non per imporre la forma e il marchio indelebile.

A Cartagena mi piaceva andare a Bocachica e avevo l'illusione di ricuperare qualcosa. Un negro da Africa, però già smaliziato dai contatti con vari cineasti divenne il mio interlocutore. Viveva a mezza collina e perciò nella scala delle categorie era negro. Quelli che vivevano in riva al mare erano bianchi.

Perdevano colore allontanandosi dalla spiaggia. Identità africana era solamente il colore e altri particolari

somatici. La chiesa non era per i negri-negri, i negri poveri, se non nei momenti grandi del battesimo, matrimonio e messa corpo presente. Certamente a Cartagena esisteva un movimento negro che reclamava attenzione e rispetto per la cultura negra. Ma faceva suono ammirato solamente il negro dei reggae.

Avevo un piccolo piano di cominciare lentamente e senza scalpori, avvicinamenti al mondo africano di cui mi sentivo  alleato e ammiratore. C'era bisogno di tempo e di molto dialogo per rintracciare le correnti che volevano promuovere il riscatto della cultura negra. Incontrai in due anni molti agganci per incoraggiare il discorso che volevo fare. I beneamati superiori confusero agganci con granchi e si chiuse per me l'itinerario culturale nel mondo africano, a Cartagena, terra di San Pedro Claver, difensore e evangelizzatore degli schiavi negri, ai primi di gennaio del 1985. Pensando al santo missionario Claver, mi viene in mente che aldilà del metodo discutibile aveva capito delle cose importantissime. L'anima degli schiavi aveva un segno per resistere a tutte le catene. Era il tamburo. E nella notte il tamburo diventava l'internet. Claver li andava a cercare per bruciarli perché diceva che impedivano la conversione. Grazie a Dio non li ha bruciati tutti e fino ai nostri giorni un negro al tamburo diventa re e gigante. A Cartagena utilizzai la musica e il canto. La Messa diventò il momento glorioso, la fonte e il vertice. Quando arrivai la Messa cominciava mezzora dopo. Dopo la cura la chiesa si riempiva mezzora prima.

Da Cartagena passai al Caquetà dove rimasi due anni e ricevetti il battesimo indio perché nelle Missioni c'erano villaggi indigeni che si visitavano regolarmente.  Io arrivavo dopo tantissimo lavoro anche antropologico anche educativo. Ma gli indios mi sembravano dei poveri orfanelli, versione americana di cenerentola.  

 

 

Nel 1986, decisamente cambiò la mia vita. La regione Colombia aveva fatto una scelta storica e aveva deciso di aprirsi verso l'Ecuador dove esistevano zone missionarie, il famoso 'ad gentes' che doveva distinguere tutte le provincie IMC. C'erano state visite e dialoghi e avevano scelto il Chimborazo, Riobamba, gli Indios di Mons. Proaño. Sentii un richiamo fortissimo e mi offrii volontario per cominciare. Non fu facile ottenere il consenso. Praticamente essendo l'unico che aveva fatto domanda, alla fine, per potere essere in due come dice la regola, mi misero nella lista, con il numero tre.

Numero uno era Padre Lino. Numero due era un multi-ex che il Superiore voleva far rientrare alla chetichella, dopo un ennesimo periodo formativo, e ammetterlo rapidamente alla  professione temporanea. Sono aneddoti solamente. Si sopravvive con molta pazienza e alcune piccole strategie.

La Diocesi di Riobamba aveva una organizzazione sistematica almeno a livello di  progetto e intenzionalità. C'era anche l'ideologia, il marco teorico con il punto di partenza e il punto di arrivo, la realtà e il Regno, gli obiettivi generali e quelli specifici. La fede voleva dire accettare Gesucristo e impegnarsi a lavorare per costruire la chiesa, dai poveri e con i poveri, formando comunità con la coscienza di essere popolo di Dio e segno espressivo del regno. Assieme bisognava fare tutto il possibile per costruire una società nuova che fosse anticipazione del regno nella terra.

Nell'intenzione la cosa più importante doveva essere la salvezza del mondo e nella esecuzione prima di tutto era  la Chiesa nuova di sana pianta. Gli obiettivi specifici diventavano edificare la Chiesa lavorando per la formazione, moltiplicazione e consolidazione delle comunità cristiane di base e altri tipi di comunità cristiana. E formare i responsabili della marcia di queste comunità: catechisti, missionari, futuri sacerdoti. La Diocesi mi sembrava un laboratorio effervescente. Ma nel 1987 Mons. Proaño era già in disparte e il nuovo Vescovo, che ci aveva chiamati era preoccupato perché in pratica per conformarsi doveva diventare come il quadro dei cari estinti. Ci deve essere sempre ma deve stare zitto.

Chi aveva voce in capitolo non erano gli indios, ma gli agenti pastorali, francesi, colombiani, spagnoli, tedeschi, olandesi, preti, laici e suore. Gli indios erano i protetti  e anche loro dovevano esserci sempre anche se erano come i pesci nel deserto. Ogni tanto i benianimi, che erano stati programmati, dovevano dire la sua che, guarda caso, appoggiava gli amaleciti e faceva godere l'assemblea con attacchi e lamenti contro la Chiesa gerarchica, il FMI, il debito estero. Gli indios erano tutti battezzati e nelle comunità del campo oltre alla cappella per la comunità cristiana, c'era anche la casa comunale per i comuneros.

E avevano messo in piedi una certa convivenza o almeno una coabitazione con i vari interlocutori.

Ma loro seguivano quello che avevano sempre fatto, una vita indigena inculturata durante moltissimi anni. Ad un certo punto nella storia tutti erano stati Puruhua, minuscole tribù confederate e coordinate in linee generali dai re di Quito. Poi arrivarono gli incas dal Perù e quando giunsero gli Spagnoli erano già stati ingoiati nella cultura incaica. Gli spagnoli fecero il resto: unificarono la lingua e l'amministrazione e promossero a tutta forza la cristianizzazione. Quando arrivò padre Josè cos'era rimasto dei Puruhà? E degli Incas? E degli Spagnoli? E il resto? Perché nel frattempo erano arrivati i libanesi, i cinesi, gli italiani, gli inglesi, i tedeschi. Ma nella Diocesi di Riobamba valeva il grido che rivendicava luoghi e spazi culturali nella chiesa. Si parlava di chiesa indigena come una chiesa nuova quasi parallela alla chiesa cattolica. Come dire che 'se non ci danno entrata nella chiesa cattolica' dobbiamo farne una noi totalmente indigena nel pensiero e nella teologia, con riti propri e segni propri. Una bellissima cosa ma le varie culture sono tra loro più appiccicate che i siamesi. Invece i profeti dell'esodo culturale pensano che in qualche posto ci sono i pacchetti intatti delle culture antiche che basta aprire e consegnare al popolo.

Io ho lavorato nel senso di partire davvero dalla realtà che ci ritroviamo senza nostalgie per tombe che non esistono. La Chiesa di Riobamba anche se è composta per l' 80 % di indios e quasi indios nei quadri direttivi per i vari  servizi e dipartimenti e commissioni gli indios si contano con le dita di una mano.

Allora si può inculturare la chiesa senza indigenizzarla? E' il mio grido di guerra: bisogna indigenizzare.

Nel campo laico e amministrativo pubblico si è fatta molta indigenizzazione. Nel campo ecclesiastico niente. Nessuno comincia? comincio io con i catechisti nelle mie parrocchie di Licto e Flores. Poi con la chiesa indigenizzata verranno le idee e le esigenze e le gestioni proprie. Da 14 anni io lavoro in questo senso. Cosa faccio con una chiesa piena di cultura indigena e vuota di servitori indigeni, dirigenti indigeni, responsabili indigeni. Allo stesso tempo promuovo l'educazione complementaria. Da dove sono proseguo. Non vado a cercare quello che avrebbero dovuto essere, ma da quello che sono adesso qui, io parto. Spiego che stiamo attuando una pastorale inculturata. Il campo per una inculturazione così c'è già da 500 anni. Metodo, azione pastorale, segni, religiosità, celebrazione si è sempre adattato ai mezzi comunicativi più idonei. Lo stesso idioma si è adattato. Ogni religione per essere vissuta e praticata si veste di molti segni culturali. Quello che è la religiosità popolare oggi qui a Riobamba, tra una maggioranza di indios è frutto di una lunga inculturazione. Mancano altri campi perché mancano filosofi, teologi, persone dotte scientificamente parlando. E allora nella morale, nel sociale, nel politico, nell'etico non c'è cultura india. Almeno cominciamo con la pastorale e abilitiamola ad essere laboratorio piena di gente indigena che potranno elaborare nuovi modi organizzativi indigeni, avvicinamenti indigeni, catechesi indigene. Noi lavoriamo e lottiamo perché la pastorale sociale sia indigenizzata, e la politica diocesana anche, e le opzioni, i lineamenti pastorali e i segni, le strutture, le zone, le incombenze, i ministeri, le responsabilità, la nuova evangelizzazione ecc. diventino luoghi indigeni. 

I dubbi non sono stati dissipati e lo scetticismo rimane. Almeno lo sforzo missionario rimanga come alternativa permanente.  Termino citando il poeta Luis Rosales.       

Di notte andremo, di notte, senza luna andremo, senza luna, che per incontrare la fonte solamente la sete ci illumina.

 

 

Padre Giuseppe Ramponi

COOPERAZIONE MISSIONARIA

MISSIONI CONSOLATA

Corso Ferrucci 14 – 10138  TORINO

Tel. 011-4400400

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